« La Repubblica » 24 Gennaio 2019
di CLAUDIO TITO

Stiamo assistendo all’ennesimo ritorno al passato. Governo contro magistrati. Un potere dello Stato contro un altro. Un ministro, Matteo Salvini, che si vanta di girare con le divise di tutti i corpi di polizia – ma mai con la toga di un giudice – che sfida un tribunale. Esattamente come faceva Silvio Berlusconi. Forse con metodi e contenuti persino peggiori.

Si assiste così a una distorsione dei rapporti tra Istituzioni e a una opacizzazione della nostra democrazia. In questo momento, infatti, non è in discussione solo il merito della richiesta avanzata dal tribunale dei ministri di Catania su una vicenda, quella della nave Diciotti, che ha già esposto il Paese alla condanna internazionale. Il vero nodo si stringe intorno alla possibilità che un membro dell’esecutivo possa attaccare i magistrati ponendosi al di sopra delle leggi e della Costituzione.

Chi è eletto in Parlamento o ha ricevuto la fiducia delle Camere è sottoposto ai codici come tutti i cittadini italiani. La sola minaccia di ripetere il reato contestato supera i limiti dell’eversione. Proprio perché viene da un potere dello Stato. Il profilo genetico del nostro sistema sembra ormai aver subìto negli anni e poi metabolizzato una modifica che spinge l’arroganza del potere a trasformarsi costantemente in impunità giudiziaria e ora anche in trasgressione dell’ordine democratico. L’egemonia parlamentare trascende così in quella pericolosa possibilità di essere liberamente incoerente, di dire e fare il contrario di quel che si è promesso. Giustificando il tutto con un astratto richiamo al popolo o, per meglio dire, al “populismo”.

Se Salvini in diretta Facebook arriva a promettere che rifarà tutto in “difesa della patria”, ogni argine viene spazzato via. Chi può davvero pensare – oltre al leader leghista – che centosettantaquattro migranti siano in grado di mettere in pericolo la Patria? Chi siede al Viminale deve semmai conoscere gli articoli della Costituzione che ci vincolano alle norme internazionali, alla convivenza civile e all’umanità. Si tratta di un perimetro che un Paese civile non può cancellare pur riconoscendo che l’immigrazione costituisce per tutti un’emergenza e un problema sociale da affrontare.

I leader di questa maggioranza, poi, hanno elevato a bandiera la loro integrità dinanzi alla giustizia. Il Movimento 5 Stelle ha vinto le scorse elezioni al grido di “onestà, onestà” e in

Parlamento si è sempre schierato per concedere l’autorizzazione a procedere. Salvini il 27 febbraio del 2018 scriveva su Twitter: “Coerenza, onestà, altruismo”. E ad agosto scorso si dichiarava pronto ad affrontare un eventuale processo. Chieda allora al Senato di concedere l’autorizzazione. Ieri non l’ha fatto. Ma è ancora in tempo.

E i grillini, per evitare di essere definitivamente battezzati come i caudatari della Lega, dicano apertamente come intendono comportarsi. In questa legislatura e nella precedente hanno sempre dischiuso le porte ai procedimenti richiesti dai magistrati. Cambiare linea solo per mantenere in vita il governo, oltre a mettere una pietra tombale su una presunta diversità, significherebbe assumere il proverbio andreottiano del “tirare a campare”. C’è poi un altro aspetto che può gettare un’ombra di sospetto: le accuse di “sequestro” rivolte a Salvini vanno inserite nell’esercizio di un’azione di governo. Di cui fanno parte anche i grillini. La responsabilità politica è collegiale, non risponderne con trasparenza annullerebbe ogni differenza tra M5S e Lega. Diventerebbero identici, a un passo dal nuovo partito unico del populismo.