Cerimonia commemorativa del 57° anniversario della tragedia di Marcinelle l’8 agosto scorso
Discorso della presidente della Camera dei deputati, sig.ra Boldrini, a Marcinelle
Vorrei innanzitutto ringraziare tutti voi – le autorità belghe ed italiane presenti e la comunità italiana – per avermi invitata a partecipare alla commemorazione dell’immane strage del Bois du Cazier. Saluto, in particolare, il Presidente Flahaut, che ha voluto essere con noi oggi, nonché i parlamentari italiani eletti nella circoscrizione estero che ci hanno accompagnati a Marcinelle. Qui, dove 136 dei 262 morti erano italiani, si è consumata una pagina tragica dell’emigrazione italiana. Una pagina che oggi, a distanza di cinquantasette anni, ci ricorda molte cose.
Ci ricorda innanzitutto chi eravamo noi italiani fino a qualche decennio fa. Un popolo che, per sfuggire alla povertà e, talvolta, alla miseria, ha conosciuto il dolore, ha conosciuto le umiliazioni, ha conosciuto i sacrifici dell’emigrazione – prima una signora si è avvicinata per dirmi che lei partorì qui, senza nessuna assistenza, in una delle cantines. Nel corso di poco più di un secolo, dall’unità d’Italia al 1985, si stima che ventinove milioni di persone abbiano lasciato l’Italia, diretti dapprima nelle Americhe e poi, dal secondo Dopoguerra, nei Paesi del Nord Europa.
Molti fecero poi ritorno a casa. Tanti altri, invece, non sono più tornati, scegliendo di costruirsi un futuro in una terra nuova. Con il proprio duro lavoro, contribuirono allo sviluppo economico, sociale e culturale dei Paesi in cui si stabilirono ed in cui fecero crescere i propri figli, contribuirono dando il meglio di se stessi, dando la vita. La comunità italiana qui in Belgio – la più numerosa delle comunità straniere in questo Paese – è un esempio di quanto abbiano dato gli italiani ai Paesi che li accoglievano e della straordinaria mobilità sociale che hanno conseguito. Tra i figli ed i nipoti di quelle centinaia di minatori italiani che, negli anni Quaranta e Cinquanta, si riversarono in Vallonia alla ricerca di una vita migliore, vi sono importanti esponenti politici, imprenditori, accademici, artisti. Il vostro primo ministro, Elio Di Rupo, è di origini italiane. Lo è anche il deputato Franco Seminara, che è qui oggi e che saluto e ringrazio.
Nel 1946, nelle città italiane comparvero manifesti che recitavano: “Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”. Erano affissioni della Federazione carbonifera belga, pubblicate a seguito della firma dell’accordo bilaterale italo-belga che garantiva la vendita all’Italia di una quantità minima di carbone in cambio dell’invio di lavoratori in Belgio. Dà disagio leggere queste parole.
La realtà, come voi ben sapete, era molto diversa da quella annunciata. Gli operai italiani che partivano dalle regioni che allora erano le più povere – la Sicilia, la Puglia, l’Abruzzo, la Calabria, ma anche il Friuli ed il Veneto – per il “lavoro sotterraneo nelle miniere”, come recita sempre il manifesto, affrontavano viaggi in condizioni difficilissime, stipati nei treni per giorni. Al loro arrivo, i lavoratori venivano destinati alle famigerate cantines, le baracche dove vivevano ammassati, senza acqua corrente, elettricità, servizi igienici. Venivano chiamati ‘musi neri’. Spesso chi cercava un alloggio in affitto per potersi ricongiungere alla propria famiglia trovava affissa sulla porta la scritta: ‘Ni animaux, ni étrangers’. Né animali, né stranieri. Proprio come oggi, in Italia, c’è chi specifica: ‘Non si affitta a stranieri’ negli annunci di locazione. In barba, oltre che alle nostre leggi, alla nostra storia.
Una storia che scegliamo di ignorare, definendo l’immigrazione nel nostro Paese come una ‘emergenza’, mentre sappiamo bene che si tratta, a tutti gli effetti, di un fenomeno ormai strutturale. Una storia che scegliamo di ignorare decidendo di non vedere, in quei migranti stremati che arrivano a Lampedusa, i volti dei nostri padri che partirono per Marcinelle, i loro stessi occhi. O accettando che chi, nel nostro Paese, riempie i cantieri edili e raccoglie i prodotti agricoli, lavori in condizioni inaccettabili – e viva in baracche fatiscenti o in rifugi di fortuna, senza acqua e elettricità. Alloggi simili o forse peggiori delle cantines. Condizioni che ho potuto verificare di persona quando lavoravo all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (qui c’è un mio ex collega che saluto, Paolo Artini, con l quale ho lavorato tanti anni insieme), a Rosarno come a Castelvolturno, a Torino come nella stessa capitale. In molti degli stessi luoghi, dunque, da dove partirono – nell’Ottocento e nel Novecento – gli emigranti italiani. Questo accade anche perché non si è coltivata a sufficienza la memoria. La memoria che ci ricorda eventi drammatici e momenti cui invece dovremmo ispirarci. La memoria che deve servire da guida per noi e per i nostri figli, per i quali va custodita ed ai quali va trasmessa con orgoglio e a testa alta. Dobbiamo essere orgogliosi del nostro passato, perché ci ha portato ad un presente grandioso. Voi dovete essere orgogliosi della vostra storia, di quello che avete fatto, e noi con voi.
Le miniere dove gli italiani venivano ingaggiati, molte delle quali già in funzione dal XIX secolo, erano insicure, dotate di vie di fuga e di aerazione insufficienti. Chi vi lavorava – tra i quali molti erano ragazzi – affrontava turni massacranti e rischiava la vita ogni giorno. E le donne non sapevano se alla sera avrebbero rivisto i loro mariti e figli. Furono infatti molte centinaia i minatori italiani morti in Belgio nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Qui, a Marcinelle, ed altrove. Quel giorno, cinquantasette anni fa, 262 persone morirono asfissiate, arse vive, persino affogate dall’acqua che veniva gettata nelle gallerie per domare l’incendio che causò la tragedia. Morirono di lavoro e per il lavoro. Morirono perché quel lavoro non era tutelato. E morirono due volte, perché ai loro cari non fu assicurata piena giustizia per quanto accaduto.
Come morirono due volte i tanti nostri connazionali colpiti da patologie collegate al lavoro nelle miniere quali la silicosi, che per molto tempo non fu riconosciuta come malattia professionale. Dopo Marcinelle, dopo quella terribile tragedia, le miniere più pericolose vennero chiuse, le condizioni di sicurezza migliorarono, seppur non nell’immediato, e gli italiani – poco a poco –
conquistarono diritti sociali e politici, trasformandosi da ‘musi neri’ in membri a tutti gli effetti della società belga. In Belgio come altrove, i lavoratori italiani ebbero un ruolo importante nelle grandi battaglie sindacali per i diritti di tutti i lavoratori, dimostrandosi “uomini”, e non mere “braccia”, come ebbe a dire il grande intellettuale svizzero Max Frisch. “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”.
C’è chi dice – oggi, nel 2013, dopo oltre un secolo di battaglie sindacali – che “di soli diritti si muore”. Lo si è sostenuto di recente. Nonostante il fatto che si continui invece a perdere la vita per la mancanza o per la sistematica erosione di diritti e tutele. I minatori cinesi muoiono a migliaia, ogni anno – le stime parlano di 1.300 nel solo 2012 – a causa di incendi, esplosioni e crolli. Quasi esattamente un anno fa, a Marikana, in Sud Africa, trentaquattro minatori che reclamavano salari più dignitosi sono stati uccisi a colpi di armi da fuoco dalle forze dell’ordine. Ed il lavoro senza tutele uccide anche laddove si svolge in luoghi che dovrebbero essere meno pericolosi delle viscere della terra. Uccide nelle fabbriche tessili del Sud-Est asiatico, dove l’immane tragedia del Rana Plaza, a Dacca, ha causato solo pochi mesi fa la morte di oltre 1.100 persone. Uccide, purtroppo e ancora, nei cantieri e nelle fabbriche italiane, dove gli incidenti sono spesso mortali. E ad uccidere in Italia, negli ultimi tempi, è anche la disperazione dovuta alla mancanza di lavoro e di quella rete di protezione sociale che lo Stato dovrebbe garantire. Come ci impone la nostra Costituzione.
Dunque senza diritti si muore. E’ questa la realtà. Allora come oggi. Nel 1956 come nel 2013. Questo ci ricordano i morti del Bois du Cazier, che ci rivolgono un monito a non riprodurre schemi basati su esclusione e sfruttamento. Schemi che il Belgio ha superato da decenni, accogliendo milioni di migranti e rendendoli fieri di essere cittadini di questo Paese. Oggi gli italiani hanno ricominciato a lasciare il proprio Paese. Nel 2012, gli emigrati italiani – per lo più giovani e laureati diretti in Germania, Svizzera e Gran Bretagna – sono stati il trenta percento in più dell’anno precedente. E nel 2011, per la prima volta da decenni, il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo. Sono stati infatti più gli emigrati – italiani e stranieri residenti da anni in Italia – a partire che gli immigrati ad arrivare. Tutto ciò nonostante l’instabilità conseguente alle Primavere arabe ed a dispetto di quelle che, per anni, alcuni hanno definito invasioni di migranti sulla nostre coste.
I giovani partono oggi in condizioni molto diverse, con la consapevolezza di poter riabbracciare i propri cari dopo un volo di poche ore, di poter comunicare costantemente con i parenti e gli amici, di poter seguire gli avvenimenti nel proprio Paese in tempo reale. Non conoscono il dolore per una lontananza spesso definitiva. Eppure anche questi ragazzi, questi giovani uomini e queste giovani donne sanno – come sapete voi – cosa vuol dire vivere sospesi tra due culture. Sanno quanto sia positivo realizzare le proprie aspirazioni all’estero, ma anche quanto sia triste e doloroso sapere di non poter rientrare nel proprio Paese per mancanza di opportunità. Sanno cosa vuol dire amare la propria terra d’origine anche quando si sono piantate radici altrove. Sanno quanto sia importante essere fieri del proprio Paese ed anche di chi lo rappresenta nelle istituzioni.
Ed è per questo che noi tutti – chi è partito, chi è tornato, chi dimostra l’orgoglio di essere italiano nella propria vita quotidiana – dobbiamo impegnarci per far ritrovare al nostro Paese la forza che lo ha fatto divenire, da esportatore di manodopera, una potenza industriale in Europa e nel mondo. Dobbiamo ritrovare questo orgoglio, il nostro Paese ce la può fare, con la determinazione che ha contribuito a fare dell’Italia uno dei pilastri dell’Europa unita. Quella stessa Europa che di fatto cominciò a nascere anche qui nelle miniere, dove i lavoratori provenivano da tanti Paesi diversi. Quella Europa che oggi permette ai nostri figli di viaggiare e di vivere negli altri Stati del continente in condizioni ben diverse da quelle dei minatori di Marcinelle. Un’Europa che dobbiamo rafforzare e rilanciare. Un’Europa – intesa come progetto politico collettivo – in cui dobbiamo tornare a credere. Un’Europa coesa e solidale come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa basata non solo sulle misure di austerità in campo economico, sui pareggi di bilancio, ma anche sui diritti e le tutele. Su quella Europa dobbiamo investire.
Lo dobbiamo ai morti del Bois du Cazier, alle loro famiglie e ai lavoratori che hanno trascorso la loro vita nel buio delle miniere cercando di assicurare un futuro migliore per sé e per i propri figli. A quegli uomini che, con il loro sacrificio, hanno contribuito a dare più dignità al lavoro ed a garantire maggiori tutele per tutti noi oggi.
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