Discorso dell’On. Laura Boldrini

Discorso dell’On. Laura Boldrini

Cerimonia commemorativa del 57° anniversario della tragedia di Marcinelle l’8 agosto scorso
Discorso della presidente della Camera dei deputati, sig.ra Boldrini, a Marcinelle

Vorrei innanzitutto ringraziare tutti voi – le autorità belghe ed italiane presenti e la comunità italiana – per avermi invitata a partecipare alla commemorazione dell’immane strage del Bois du Cazier. Saluto, in particolare, il Presidente Flahaut, che ha voluto essere con noi oggi, nonché i parlamentari italiani eletti nella circoscrizione estero che ci hanno accompagnati a Marcinelle. Qui, dove 136 dei 262 morti erano italiani, si è consumata una pagina tragica dell’emigrazione italiana. Una pagina che oggi, a distanza di cinquantasette anni, ci ricorda molte cose.

Ci ricorda innanzitutto chi eravamo noi italiani fino a qualche decennio fa. Un popolo che, per sfuggire alla povertà e, talvolta, alla miseria, ha conosciuto il dolore, ha conosciuto le umiliazioni, ha conosciuto i sacrifici dell’emigrazione – prima una signora si è avvicinata per dirmi che lei partorì qui, senza nessuna assistenza, in una delle cantines. Nel corso di poco più di un secolo, dall’unità d’Italia al 1985, si stima che ventinove milioni di persone abbiano lasciato l’Italia, diretti dapprima nelle Americhe e poi, dal secondo Dopoguerra, nei Paesi del Nord Europa.

Molti fecero poi ritorno a casa. Tanti altri, invece, non sono più tornati, scegliendo di costruirsi un futuro in una terra nuova. Con il proprio duro lavoro, contribuirono allo sviluppo economico, sociale e culturale dei Paesi in cui si stabilirono ed in cui fecero crescere i propri figli, contribuirono dando il meglio di se stessi, dando la vita. La comunità italiana qui in Belgio – la più numerosa delle comunità straniere in questo Paese – è un esempio di quanto abbiano dato gli italiani ai Paesi che li accoglievano e della straordinaria mobilità sociale che hanno conseguito. Tra i figli ed i nipoti di quelle centinaia di minatori italiani che, negli anni Quaranta e Cinquanta, si riversarono in Vallonia alla ricerca di una vita migliore, vi sono importanti esponenti politici, imprenditori, accademici, artisti. Il vostro primo ministro, Elio Di Rupo, è di origini italiane. Lo è anche il deputato Franco Seminara, che è qui oggi e che saluto e ringrazio.

Nel 1946, nelle città italiane comparvero manifesti che recitavano: “Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”. Erano affissioni della Federazione carbonifera belga, pubblicate a seguito della firma dell’accordo bilaterale italo-belga che garantiva la vendita all’Italia di una quantità minima di carbone in cambio dell’invio di lavoratori in Belgio. Dà disagio leggere queste parole.
La realtà, come voi ben sapete, era molto diversa da quella annunciata. Gli operai italiani che partivano dalle regioni che allora erano le più povere – la Sicilia, la Puglia, l’Abruzzo, la Calabria, ma anche il Friuli ed il Veneto – per il “lavoro sotterraneo nelle miniere”, come recita sempre il manifesto, affrontavano viaggi in condizioni difficilissime, stipati nei treni per giorni. Al loro arrivo, i lavoratori venivano destinati alle famigerate cantines, le baracche dove vivevano ammassati, senza acqua corrente, elettricità, servizi igienici. Venivano chiamati ‘musi neri’. Spesso chi cercava un alloggio in affitto per potersi ricongiungere alla propria famiglia trovava affissa sulla porta la scritta: ‘Ni animaux, ni étrangers’. Né animali, né stranieri. Proprio come oggi, in Italia, c’è chi specifica: ‘Non si affitta a stranieri’ negli annunci di locazione. In barba, oltre che alle nostre leggi, alla nostra storia.

Una storia che scegliamo di ignorare, definendo l’immigrazione nel nostro Paese come una ‘emergenza’, mentre sappiamo bene che si tratta, a tutti gli effetti, di un fenomeno ormai strutturale. Una storia che scegliamo di ignorare decidendo di non vedere, in quei migranti stremati che arrivano a Lampedusa, i volti dei nostri padri che partirono per Marcinelle, i loro stessi occhi. O accettando che chi, nel nostro Paese, riempie i cantieri edili e raccoglie i prodotti agricoli, lavori in condizioni inaccettabili – e viva in baracche fatiscenti o in rifugi di fortuna, senza acqua e elettricità. Alloggi simili o forse peggiori delle cantines. Condizioni che ho potuto verificare di persona quando lavoravo all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (qui c’è un mio ex collega che saluto, Paolo Artini, con l quale ho lavorato tanti anni insieme), a Rosarno come a Castelvolturno, a Torino come nella stessa capitale. In molti degli stessi luoghi, dunque, da dove partirono – nell’Ottocento e nel Novecento – gli emigranti italiani. Questo accade anche perché non si è coltivata a sufficienza la memoria. La memoria che ci ricorda eventi drammatici e momenti cui invece dovremmo ispirarci. La memoria che deve servire da guida per noi e per i nostri figli, per i quali va custodita ed ai quali va trasmessa con orgoglio e a testa alta. Dobbiamo essere orgogliosi del nostro passato, perché ci ha portato ad un presente grandioso. Voi dovete essere orgogliosi della vostra storia, di quello che avete fatto, e noi con voi.

Le miniere dove gli italiani venivano ingaggiati, molte delle quali già in funzione dal XIX secolo, erano insicure, dotate di vie di fuga e di aerazione insufficienti. Chi vi lavorava – tra i quali molti erano ragazzi – affrontava turni massacranti e rischiava la vita ogni giorno. E le donne non sapevano se alla sera avrebbero rivisto i loro mariti e figli. Furono infatti molte centinaia i minatori italiani morti in Belgio nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Qui, a Marcinelle, ed altrove. Quel giorno, cinquantasette anni fa, 262 persone morirono asfissiate, arse vive, persino affogate dall’acqua che veniva gettata nelle gallerie per domare l’incendio che causò la tragedia. Morirono di lavoro e per il lavoro. Morirono perché quel lavoro non era tutelato. E morirono due volte, perché ai loro cari non fu assicurata piena giustizia per quanto accaduto.

Come morirono due volte i tanti nostri connazionali colpiti da patologie collegate al lavoro nelle miniere quali la silicosi, che per molto tempo non fu riconosciuta come malattia professionale. Dopo Marcinelle, dopo quella terribile tragedia, le miniere più pericolose vennero chiuse, le condizioni di sicurezza migliorarono, seppur non nell’immediato, e gli italiani – poco a poco –
conquistarono diritti sociali e politici, trasformandosi da ‘musi neri’ in membri a tutti gli effetti della società belga. In Belgio come altrove, i lavoratori italiani ebbero un ruolo importante nelle grandi battaglie sindacali per i diritti di tutti i lavoratori, dimostrandosi “uomini”, e non mere “braccia”, come ebbe a dire il grande intellettuale svizzero Max Frisch. “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”.
C’è chi dice – oggi, nel 2013, dopo oltre un secolo di battaglie sindacali – che “di soli diritti si muore”. Lo si è sostenuto di recente. Nonostante il fatto che si continui invece a perdere la vita per la mancanza o per la sistematica erosione di diritti e tutele. I minatori cinesi muoiono a migliaia, ogni anno – le stime parlano di 1.300 nel solo 2012 – a causa di incendi, esplosioni e crolli. Quasi esattamente un anno fa, a Marikana, in Sud Africa, trentaquattro minatori che reclamavano salari più dignitosi sono stati uccisi a colpi di armi da fuoco dalle forze dell’ordine. Ed il lavoro senza tutele uccide anche laddove si svolge in luoghi che dovrebbero essere meno pericolosi delle viscere della terra. Uccide nelle fabbriche tessili del Sud-Est asiatico, dove l’immane tragedia del Rana Plaza, a Dacca, ha causato solo pochi mesi fa la morte di oltre 1.100 persone. Uccide, purtroppo e ancora, nei cantieri e nelle fabbriche italiane, dove gli incidenti sono spesso mortali. E ad uccidere in Italia, negli ultimi tempi, è anche la disperazione dovuta alla mancanza di lavoro e di quella rete di protezione sociale che lo Stato dovrebbe garantire. Come ci impone la nostra Costituzione.

Dunque senza diritti si muore. E’ questa la realtà. Allora come oggi. Nel 1956 come nel 2013. Questo ci ricordano i morti del Bois du Cazier, che ci rivolgono un monito a non riprodurre schemi basati su esclusione e sfruttamento. Schemi che il Belgio ha superato da decenni, accogliendo milioni di migranti e rendendoli fieri di essere cittadini di questo Paese. Oggi gli italiani hanno ricominciato a lasciare il proprio Paese. Nel 2012, gli emigrati italiani – per lo più giovani e laureati diretti in Germania, Svizzera e Gran Bretagna – sono stati il trenta percento in più dell’anno precedente. E nel 2011, per la prima volta da decenni, il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo. Sono stati infatti più gli emigrati – italiani e stranieri residenti da anni in Italia – a partire che gli immigrati ad arrivare. Tutto ciò nonostante l’instabilità conseguente alle Primavere arabe ed a dispetto di quelle che, per anni, alcuni hanno definito invasioni di migranti sulla nostre coste.
I giovani partono oggi in condizioni molto diverse, con la consapevolezza di poter riabbracciare i propri cari dopo un volo di poche ore, di poter comunicare costantemente con i parenti e gli amici, di poter seguire gli avvenimenti nel proprio Paese in tempo reale. Non conoscono il dolore per una lontananza spesso definitiva. Eppure anche questi ragazzi, questi giovani uomini e queste giovani donne sanno – come sapete voi – cosa vuol dire vivere sospesi tra due culture. Sanno quanto sia positivo realizzare le proprie aspirazioni all’estero, ma anche quanto sia triste e doloroso sapere di non poter rientrare nel proprio Paese per mancanza di opportunità. Sanno cosa vuol dire amare la propria terra d’origine anche quando si sono piantate radici altrove. Sanno quanto sia importante essere fieri del proprio Paese ed anche di chi lo rappresenta nelle istituzioni.

Ed è per questo che noi tutti – chi è partito, chi è tornato, chi dimostra l’orgoglio di essere italiano nella propria vita quotidiana – dobbiamo impegnarci per far ritrovare al nostro Paese la forza che lo ha fatto divenire, da esportatore di manodopera, una potenza industriale in Europa e nel mondo. Dobbiamo ritrovare questo orgoglio, il nostro Paese ce la può fare, con la determinazione che ha contribuito a fare dell’Italia uno dei pilastri dell’Europa unita. Quella stessa Europa che di fatto cominciò a nascere anche qui nelle miniere, dove i lavoratori provenivano da tanti Paesi diversi. Quella Europa che oggi permette ai nostri figli di viaggiare e di vivere negli altri Stati del continente in condizioni ben diverse da quelle dei minatori di Marcinelle. Un’Europa che dobbiamo rafforzare e rilanciare. Un’Europa – intesa come progetto politico collettivo – in cui dobbiamo tornare a credere. Un’Europa coesa e solidale come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa basata non solo sulle misure di austerità in campo economico, sui pareggi di bilancio, ma anche sui diritti e le tutele. Su quella Europa dobbiamo investire.

Lo dobbiamo ai morti del Bois du Cazier, alle loro famiglie e ai lavoratori che hanno trascorso la loro vita nel buio delle miniere cercando di assicurare un futuro migliore per sé e per i propri figli. A quegli uomini che, con il loro sacrificio, hanno contribuito a dare più dignità al lavoro ed a garantire maggiori tutele per tutti noi oggi.

Carta d’intenti “Italia Bene Comune”

Carta d’intenti “Italia Bene Comune”

PER LA RICOSTRUZIONE
E IL CAMBIAMENTO

PATTO DEI DEMOCRATICI
E DEI PROGRESSISTI
CARTA D’INTENTI

L’Italia ce la farà se ce la faranno gli italiani.

Se il paese che lavora, o che un lavoro lo cerca,che studia, che misura le spese che dedica del tempo
al bene comune, che osserva le regole e ha rispetto di sé, troverà un motivodi fiducia e di speranza.
L’Italia perderà se abbandonerà l’Europa e si rifugerà nel suo spirito corporativo,
se prevarrà l’interesse del più ricco o del più arrogante. Se speranza e riscatto
non saranno il capitale di un popolo ma scialuppe solo per i furbi e i meno innocenti.
Questa Carta d’Intenti vuole descrivere l’Italia che ce la può fare, che ce la può
fare ricostruendo basi etiche e di efficienza economica; che ce la può fare con
uno sforzo comune in cui chi ha di più dà di più.

Sappiamo che la politica ha le sue colpe. E che quanto più profonda si manifesta
la crisi, tanto più le classi dirigenti devono testimoniare il meglio: nella competenza,
nella condotta, nella coerenza. Questo sarà il nostro impegno e la
bussola per il nostro compito. Con la stessa sincerità, diciamo che non siamo
tutti uguali. Non sono uguali i partiti, le persone, le responsabilità. Gli italiani
sono finiti dove mai sarebbero dovuti stare perché a lungo sono stati governati
male. Noi vogliamo chiudere quella pagina e aprirne un’altra.
L’Italia, come altre grandi nazioni, è immersa nella fine drammatica di un ciclo
della storia che ha occupato l’ultimo trentennio. La gravità del quadro elimina
molte certezze. Ma sono proprio le grandi rotture a dettare le regole del futuro.
Nel senso che da una crisi radicale – dell’economia e della democrazia – non si
esce mai come si è entrati. Le crisi cambiano il paesaggio, le persone, il modo di
pensare. La sfida è spingere quel mutamento verso un progresso e un civismo
più solidi, retti, condivisi. Davanti a noi, adesso, c’è una scelta di questo tipo: se
batterci per migliorare tutti assieme o rinunciare a battersi. Se credere nelle risorse
del Paese o affidarsi – e sarebbe una sciagura – alle risorse di uno solo. Se unire
le energie disponibili e ripensare assieme l’Europa, o attendere che altri scelgano
e dicano per noi.
Questo è il momento di decidere cosa vogliamo diventare. Quale ruolo dare a
una nazione con la nostra tradizione, situata nel cuore di un Mediterraneo che
le rivolte giovanili stanno modificando come mai era accaduto. Quale democrazia
rifondare, dopo una crisi che ha corretto i confini della sovranità dei singoli stati.
Insomma questo è il momento di ricostruire l’Italia che lasceremo a chi verrà
dopo.
Il prossimo Parlamento e il governo che gli elettori sceglieranno avranno tre
compiti decisivi. Dovranno guidare l’economia fuori dalla crisi rimettendola salda
sulle gambe. Dovranno ridare autorità, efficienza e prestigio alle istituzioni e alla
politica, ripartendo dai principi della Costituzione. Dovranno rilanciare – in un
gioco di squadra con le altre nazioni e i loro governi – l’unità e l’integrazione politica
dell’Europa.
Vogliamo dunque proporre la traccia di una discussione aperta sull’Italia attorno
ad alcune idee fondamentali. Cerchiamo un patto con le forze politiche
democratiche, progressiste e di una sinistra di governo, con movimenti e associazioni,
con amministratori, con ogni persona e personalità che voglia contribuire
a un progetto per uscire da una crisi senza eguali nella nostra memoria. Una crisi
che affrontiamo con la zavorra di un debito pubblico da ridurre drasticamente e
che richiederà scelte responsabili, di rigore e allo stesso tempo di enorme coraggio.
Bisogna vedere i problemi e insieme cogliere le occasioni. L’Italia è in grado
di farlo ma deve avere più fiducia nei suoi mezzi e meno paura del viaggio che
dobbiamo fare. Non è più tempo di “contratti”, promesse, sogni appesi a un
filo. Adesso è tempo di ripartire. Perché il peggio può essere alle nostre spalle. Se
lo vogliamo.

1 Visione
Noi non crediamo all’ottimismo delle favole, quello venduto nel decennio disastroso
della destra. Crediamo, invece, in un risveglio della fiducia e soprattutto
nel futuro degli italiani, a cominciare dai più giovani e dalle donne. I problemi
sono enormi e il tempo per aggredirli si accorcia. Le scelte da compiere non sono
semplici né scontate. Ma la speranza che ci muove vive tutta nella convinzione
che si possano combinare rigore e cambiamento. Che si possa agganciare la crescita
in un quadro di equità.
Il nostro posto è in Europa. Lì dove Mario Monti ha avuto l’autorevolezza di riportarci
dopo una decadenza che l’Italia non meritava. Noi collocheremo sempre
più saldamente l’Italia nel cuore di un’Europa da ripensare e, in qualche misura,
da rifondare. Lo faremo assieme a quelle forze progressiste che cercano in un
tempo difficile di non tradire il sogno di un’Europa unita nell’impronta della sua
civiltà.
In “casa” dovremo colmare la faglia che si è scavata tra cittadini e politica. Qui
non bastano le parole. Serviranno i comportamenti, le azioni, le coerenze. Cercheremo
di andare nella direzione giusta: di fare in modo che la buona politica
e una riscossa civica procedano affiancate. Il traguardo è ricostruire quel patrimonio
collettivo che la destra e i populismi stanno disgregando: la qualità della
democrazia, la dignità di ciascuno, legalità, cittadinanza, partecipazione. La realtà
è che mai come oggi nessuno si salva da solo. E nessuno può stare bene davvero,
se gli altri continuano a stare male: è questo il principio a base del nostro progetto,
sia nella sfera morale e civile che in quella economica e sociale.
Vogliamo che il destino dell’Italia sia figlio della migliore civiltà dell’Europa e
che insieme riscopriamo la necessità di sentirci vicino a chi nel mondo si batte
per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano. Lo scriviamo nella coscienza
che la grandezza e la tragedia del ‘900 in Europa si misurano in una sola
parola: la pace. La conquista faticosa di un continente che, con la tragica eccezione
dei Balcani, ha conosciuto nella seconda metà del secolo la sua riconciliazione.
Oggi, in un mondo in subbuglio, pace, cooperazione, accoglienza, devono
ispirare di nuovo il discorso pubblico. Nella coscienza dei singoli come nella diplomazia
degli Stati.
Con questa visione noi, democratici e progressisti, ci candidiamo alla guida del
Paese.

2 Democrazia
Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose
di un uomo solo al comando. E’ una strada che l’Italia ha già percorso, e
sempre con esiti disastrosi. In democrazia ci sono due modi di concepire il potere.
Usare il consenso per governare bene. Oppure usare il governo per aumentare il
consenso. La prima è la via del riformismo. La seconda è la scorciatoia di tutti i
populismi e si traduce in una paralisi della decisione.
Per noi il populismo è il principale avversario di una politica autenticamente
popolare. In questi ultimi anni esso è stato alimentato da un liberismo finanziario
che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole. La destra
populista ha promesso una illusoria protezione dagli effetti del liberismo finanziario
innalzando barriere culturali, territoriali e a volte xenofobe. Anche quando
questo populismo ha pescato il suo consenso all’interno di un disagio diffuso e
reale, il suo esito è sempre stato antipopolare.
La sola vera risposta al populismo è in una partecipazione rinnovata come base
della decisione. E questo perché la crisi della democrazia non si combatte con
“meno” ma con “più” democrazia. Il che significa più rispetto delle regole, una
netta separazione dei poteri e l’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione
che rimane tra le più belle e avanzate del mondo. In questo senso siamo
convinti che il suo progetto di trasformazione civile, economica e sociale sia vitale
e per buona parte ancora da mettere in atto.
Vogliamo dare segnali netti all’Italia onesta che cerca nelle istituzioni un alleato
contro i violenti, i corruttori e chiunque si appropri di risorse comuni mettendo
a repentaglio il futuro degli altri. Per noi ciò equivarrà alla difesa intransigente
del principio di legalità, a una lotta decisa all’evasione fiscale, al contrasto severo
dei reati contro l’ambiente, al rafforzamento della normativa contro la corruzione
e a un sostegno più concreto agli organi inquirenti e agli amministratori impegnati
contro mafie e criminalità, vero piombo nelle ali per l’intero Paese. Sono
questi gli impegni inderogabili e le coerenze richieste alla politica se vogliamo
che i cittadini abbiano di nuovo fiducia nella democrazia.
Sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare
semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della
funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica. Riformuleremo
un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto
di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese. Sono poi essenziali norme
stringenti in materia di conflitto d’interessi, legislazione antitrust e libertà dell’informazione,
secondo quei principi liberali che la destra italiana disconosce. Bisogna
attuare a tutti i livelli la democrazia paritaria nell’idea che autonomia e
responsabilità delle donne siano una leva essenziale della crescita. Ma soprattutto
daremo vita a un meccanismo riformatore che dia finalmente concretezza e certezza
di tempi alla funzione costituente della prossima legislatura.

Infine, ma non è l’ultima delle priorità, la politica deve recuperare autorevolezza,

promuovere il rinnovamento, ridurre i suoi costi e la sua invadenza in ambiti
che non le competono. Serve una politica sobria perché se gli italiani devono risparmiare,
chi li governa deve farlo di più. A ogni livello istituzionale non sono
accettabili emolumenti superiori alla media europea. Ma anche questo non basta.
Va approvata una riforma dei partiti, che alla riduzione del finanziamento pubblico
affianchi una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, e bisogna
agire per la semplificazione e l’alleggerimento del sistema istituzionale e
amministrativo. Occorrono piani industriali per ogni singola amministrazione
pubblica al fine di produrre efficienza e risparmio. Riconoscere il limite della politica
e dei partiti significa anche aprire il campo alle richieste d’impegno e mobilitazione
che maturano nella società ed alle competenze che si affermano. Tutto
ciò dovrà essere messo al concreto a cominciare dalle nomine in enti, società
pubbliche e autorità di sorveglianza e da criteri di selezione nelle funzioni di governo.

3 Europa
La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà.
Ma noi siamo l’Europa, nel senso che da lì viene la sola possibilità di affrancare
l’Italia dai guasti del collasso liberista, e quindi le sorti dell’integrazione politica
coincidono largamente col nostro destino. Insomma non c’è futuro per l’Italia
se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo. La prossima maggioranza
dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa.
Per riuscirci agiremo in due direzioni. In primo luogo, rafforzando la piattaforma
dei progressisti europei. Se l’austerità e l’equilibrio dei conti pubblici, pur
necessari, diventano un dogma e un obiettivo in sé – senza alcuna attenzione
per occupazione, investimenti, ricerca e formazione – finiscono per negare se
stessi. Adesso c’è bisogno di correggere rotta, accelerando l’integrazione politica,
economica e fiscale, vera condizione di una difesa dell’Euro e di una riorganizzazione
del nostro modello sociale.
La sfida – e questa è la seconda direzione da imboccare – è portare a compimento
le promesse tradite della moneta unica e integrare la più grande area
commerciale del pianeta – perché questo siamo, e tuttora – in un modello di civiltà
che nessun’altra nazione o continente è in grado di elaborare.
Salvare l’Europa nel pieno della crisi significa condividere il governo dell’emergenza
finanziaria secondo proposte concrete che abbiamo da tempo avanzato
assieme ai progressisti europei. Tali proposte determinano una prospettiva di coordinamento
delle politiche economiche e fiscali. E dunque nuove istituzioni comuni,
dotate di una legittimazione popolare e diretta. A questo fine i progressisti
devono promuovere un patto costituzionale con le principali famiglie politiche
europee. Anche per l’Europa, infatti, la prossima sarà una legislatura costituente
in cui il piano nazionale e quello continentale saranno intrecciati stabilmente.
Una legislatura nella quale dovrà rivivere l’orizzonte ideale degli Stati Uniti d’Europa.
Qui vive la ragione che ci spinge a cercare un accordo di legislatura con le
forze del centro moderato. Collocare il progetto di governo italiano nel cuore
della sfida europea significa essere alternativi alle regressioni nazionaliste, antieuropee
e populiste, da sempre incompatibili con le radici di un’Europa democratica,
aperta, inclusiva.

4 Lavoro
La nostra visione assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore
del nostro progetto è la dignità del lavoratore da rimettere al centro della democrazia,
in Italia e in Europa. Questa è anche la premessa per riconoscere la nuova
natura del conflitto sociale. Fulcro di quel conflitto non è più solo l’antagonismo
classico tra impresa e operai, ma il mondo complesso dei produttori, cioè delle
persone che pensano, lavorano e fanno impresa. E questo perché anche lì, in
quella dimensione più ampia, si stanno creando forme nuove di sfruttamento. Il
tutto, ancora una volta, per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria. Bisogna
perciò costruire alleanze più vaste, oltre i confini tradizionali del patto tra
produttori. La battaglia per la dignità e l’autonomia del lavoro, infatti, riguarda
oggi il lavoratore precario come l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore
o artigiano non meno dell’impiegato pubblico, il giovane professionista sottopagato
al pari dell’insegnante o del ricercatore universitario.
Il primo passo da compiere è un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca
il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni
finanziari e immobiliari. Quello successivo è contrastare la precarietà,
rovesciando le scelte della destra nell’ultimo decennio e in particolare l’idea di
una competitività al ribasso del nostro apparato produttivo, quasi che rimasti orfani
della vecchia pratica che svalutava la moneta, la risposta potesse stare nella
svalutazione e svalorizzazione del lavoro. Il terzo passo è spezzare la spirale perversa
tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni
a competere sul lato della qualità e dell’innovazione, punti storicamente
vulnerabili del nostro sistema. Quarto passo è mettere in campo politiche fiscali
a sostegno dell’occupazione femminile, ancora adesso uno dei differenziali più
negativi per la nostra economia, in particolare al Sud. Farlo significa impegnarsi
per sradicare i pregiudizi sulla presenza delle donne nel mondo del lavoro e delle
professioni. A tale scopo è indispensabile alleggerire la distribuzione del carico
di lavoro e di cura nella famiglia, sostenendo una riforma del welfare e varando
un piano straordinario per la diffusione degli asili nido. Anche grazie a politiche
di questo tipo sarà possibile sostenere concretamente le famiglie e favorire una
ripresa della natalità. Insomma sul punto non servono altre parole: bisogna fare
del tasso di occupazione femminile e giovanile il misuratore primo dell’efficacia
di tutte le nostre strategie.
Infine, il lavoro è oggi per l’Italia lo snodo tra questione sociale e questione democratica.
Fondare sul lavoro e su una più ampia democrazia nel lavoro, la ricostruzione
del Paese non è solo una scelta economica, ma l’investimento decisivo
sulla qualità della nostra democrazia. Questo se pensiamo – e noi ne siamo convinti
– che il lavoro non sia solo produzione, ma rete di relazioni, equilibrio psicologico,
progetto e speranza di vita; la possibilità offerta a ciascuno di noi di
trasformare la realtà.

5 Uguaglianza
L’Italia è divenuta negli anni uno dei Paesi più diseguali del mondo occidentale.
La crisi stessa trova origine – negli Stati Uniti come in Europa – da un aumento
senza precedenti delle disuguaglianze. E dunque esiste, da tempo
oramai, un problema enorme di redistribuzione che investe il rapporto tra rendita
e lavoro, mettendo a rischio i fondamenti del welfare.
Sull’altro fronte, la ricchezza finanziaria e immobiliare è diventata sempre
più inafferrabile, capace com’è di sfuggire a ogni vincolo fiscale e solidale. E
però non si esce dalla crisi se chi ha di più non è chiamato a dare di più. In
altre parole, è la crisi stessa a insegnarci che la giustizia sociale non è pensabile
come derivata della crescita economica, ma ne fonda il presupposto. Ciò significa
che la ripresa economica richiede politiche di contrasto alla povertà,
anche in un Paese come il nostro dove il fenomeno sta assumendo caratteri
nuovi e dimensioni angoscianti. I “nuovi poveri”, per altro, continuano ad assistere
allo scandalo di rendite o emolumenti cresciuti a livelli indecenti, a ricchezze
e proprietà smodate che si sottraggono a qualunque vincolo di
solidarietà. A tutto questo bisogna finalmente mettere un argine.
Per noi parlare di uguaglianza significa guardare la società con gli occhi degli
“ultimi”. Di coloro che per vivere faticano il doppio: perché sono partiti da più
indietro o da più lontano o perché sono diversamente abili. Se poi guardiamo
alle generazioni più giovani, il tema dell’uguaglianza si presenta prima di tutto
come possibilità di scelta e parità delle condizioni di accesso alla formazione,
al lavoro, a un’affermazione piena e libera della loro personalità. Superare le
disuguaglianze di genere è l’altra grande sfida per ricostruire il Paese su basi
moderne e giuste. Non a caso, ancora una volta, il simbolo più forte di una riscossa
civica e morale è venuto dal movimento delle donne. Su questo piano
la politica, il Parlamento e il governo devono assumere la democrazia paritaria
come traguardo della democrazia tout court.
Nessun discorso sull’uguaglianza sta in piedi se non si rimette il Mezzogiorno al
centro dell’agenda. Le disuguaglianze territoriali, infatti, sono sempre anche disuguaglianze
nei diritti e nelle opportunità. L’Italia è cresciuta quando Sud e Nord
hanno scelto di avanzare assieme. Viceversa quando la forbice si è allargata, l’Italia
tutta si è distanziata dall’Europa. Sostenere, come la destra ha fatto per anni, che
il Nord poteva farcela da solo è stato un modo ipocrita di blandire una parte del
ceto produttivo. Tutt’altra cosa è combattere sprechi e inefficienze con una nuova
strategia nazionale d’intervento. Il punto è farlo assieme al senso di responsabilità
di tante amministrazioni e movimenti meridionali impegnati a correggere le storture
di vecchi regionalismi e localismi clientelari e a promuovere legalità, civismo e lavoro.
Infine, al capitolo dell’uguaglianza è legata a filo doppio la questione di una giustizia
civile e penale al servizio del cittadino. Su questo piano è superfluo ricordare
che gli anni della destra al governo hanno sprangato ogni spiraglio a un intervento
riformatore. Diciamo che si sono occupati pochissimo dello stato di diritto e molto
del diritto di uno soltanto che si riteneva proprietario dello Stato. Ma così a pagare
due volte sono stati i cittadini più deboli: quelli che hanno davvero bisogno di una
giustizia civile e penale rapida, imparziale, efficiente. Nella prossima legislatura il tema
dovrà essere affrontato dal punto di vista della dignità e dei diritti di tutti e non più
dei potenti alla ricerca d’impunità.

6 Sapere
La dignità del lavoro e la lotta alle disuguaglianze s’incrociano nel primato delle
politiche per l’istruzione e la ricerca. Non c’è futuro per l’Italia senza un contrasto
alla caduta drammatica della domanda d’istruzione registrata negli ultimi anni.
E’ qualcosa che trova espressione nell’abbandono scolastico, nella flessione delle
iscrizioni alle nostre università, nella sfiducia dei ricercatori e nella demotivazione
di un corpo insegnante sottopagato e sempre meno riconosciuto nella sua funzione
sociale e culturale.
In questo caso più che dalle tante indicazioni programmatiche, conviene partire
da un principio: nei prossimi anni, se vi è un settore per il quale è giusto che altri
ambiti rinuncino a qualcosa, è quello della ricerca e della formazione. Dalla scuola
dell’infanzia e dell’obbligo alla secondaria e all’università: la sfida è avviare il
tempo di una società della formazione lunga e permanente che non abbandoni
nessuno lungo la via della crescita, dell’aggiornamento, di possibili esigenze di
mobilità. Solo così, del resto, si formano classi dirigenti all’altezza, e solo così il sapere
riacquista la sua fondamentale carica di emancipazione e realizzazione di sé.
A fronte di questo impegno, garantiremo processi di riqualificazione e di rigore
della spesa, avendo come riferimento il grado di preparazione degli studenti e il
raggiungimento degli obiettivi formativi. La scuola e l’università italiane, già fiaccate
da un quindicennio di riforme inconcludenti e contraddittorie, hanno ricevuto
nell’ultima stagione un colpo quasi letale. Ora si tratta di avviare un’opera
di ricostruzione vera e propria. Nella prossima legislatura partiremo da un piano
straordinario contro la dispersione scolastica, soprattutto nelle zone a più forte
infiltrazione criminale, dal varo di misure operative per il diritto allo studio, da
un investimento sulla ricerca avanzata nei settori trainanti e a più alto contenuto
d’innovazione. Tutto ciò nel quadro del valore universalistico della formazione,
della promozione della ricerca scientifica e della ricerca di base in ambito umanistico.

7 Sviluppo sostenibile
Sviluppo sostenibile per noi vuol dire valorizzare la carta più importante che
possiamo giocare nella globalizzazione, quella del saper fare italiano. Sarebbe
sciocco pensare che nel mondo nuovo l’Italia possa inseguire nazioni molto
più grandi e popolose di noi. Se una chance abbiamo, è quella di una Italia
che sappia fare l’Italia. Da sempre la nostra forza è stata quella di trasformare
con il gusto, la duttilità, la tecnica e la creatività, materie prime spesso acquistate
all’estero. O di usare al meglio il nostro territorio, che non è solo arte e
bellezza naturale, ma bacino di risorse, creatività, talento.
Il decennio appena trascorso è stato particolarmente pesante per il nostro
sistema produttivo. L’ingresso nell’euro e la fine della svalutazione competitiva
hanno prodotto, con la concorrenza della rendita finanziaria, una caduta degli
investimenti in innovazione tecnologica e nella capitalizzazione delle imprese,
con l’aumento dell’esportazione di capitali. Anche in questo caso è tempo di
cambiare spartito e ridare centralità alla produzione. Una politica industriale
“integralmente ecologica” è la prima e più rilevante di queste scelte. Si tratta
di sviluppare prodotti e servizi innovativi in quei settori che, in un mercato globale
sempre più attento alle sfide ambientali, rendano l’Italia un punto di riferimento
essenziale.
Noi immaginiamo un progetto-Paese che individui grandi aree d’investimento,
di ricerca, di innovazione verso le quali orientare il sistema delle imprese,
nell’industria, nell’agricoltura e nei servizi. La qualità e le tipicità,
mobilità sostenibile, risparmio ed efficienza energetica, le scienze della vita, le
tecnologie legate all’arte, alla cultura e ai beni di valore storico, l’agenda digitale,
le alte tecnologie della nostra tradizione. Bisogna inoltre dare più forza
e prospettiva alle nostre piccole e medie imprese aiutandole a collegarsi fra
loro, a capitalizzarsi, ad accedere alla ricerca ed alla internazionalizzazione.
C’è molto da fare. Mettere al centro in Italia l’economia reale e le forze che la
promuovono, è un grande tema politico e culturale. Una vera svolta, dopo gli
anni di una destra che ha lasciato nell’oscurità le prospettive produttive del
Paese.


8 Beni comuni

Per noi sanità, istruzione, sicurezza, ambiente, sono campi dove, in via di
principio, non dev’esserci il povero né il ricco. Perché sono beni indisponibili
alla pura logica del mercato e dei profitti. Sono beni comuni – di tutti e di ciascuno
– e definiscono il grado di civiltà e democrazia del Paese.
Ancora, l’energia, l’acqua, il patrimonio culturale e del paesaggio, le infrastrutture
dello sviluppo sostenibile, la rete dei servizi di welfare e formazione,
sono beni che devono vivere in un quadro di programmazione, regolazione e
controllo sulla qualità delle prestazioni.
Per tutto questo, introdurremo normative che definiscano i parametri della
gestione pubblica o, in alternativa, i compiti delle autorità di controllo a tutela
delle finalità pubbliche dei servizi. In ogni caso non può venir meno una responsabilità
pubblica dei cicli e dei processi, che garantisca l’universalità di accesso
e la sostenibilità nel lungo periodo.
La difesa dei beni comuni è la risposta che la politica deve a un bisogno di
comunità che è tornato a manifestarsi anche tra noi. I referendum della primavera
del 2011 ne sono stati un’espressione fondamentale. È tramontata
l’idea che la privatizzazione e l’assenza di regole siano sempre e comunque la
ricetta giusta. Non si tratta per questo di tornare al vecchio statalismo o a una
diffidenza preventiva verso un mercato regolato. Il punto è affermare l’idea
che questi beni riguardano il futuro dei nostri figli e chiedono pertanto una
presa in carico da parte della comunità.
In questo disegno la maggiore razionalità e la valorizzazione del tessuto
degli enti locali sono essenziali, non solo per la funzione regolativa che sono
chiamati a svolgere, ma perché il presidio di democrazia, partecipazione e servizi
che assicurano è in sé uno dei beni più preziosi per i cittadini. Superare le
duplicazioni, riqualificare la spesa, devono perciò accompagnarsi ad un nuovo
e rigoroso investimento sul valore dell’autogoverno locale che, soprattutto
nella crisi, non va visto, così come ha fatto la destra, come una specie di malattia,
ma piuttosto come una possibile medicina. A sua volta l’autogoverno
locale deve offrire spazi e occasioni alla sussidiarietà, alle forme di partecipazione
civica, ai protagonisti del privato sociale e del volontariato.

9 Diritti
Per i democratici e i progressisti la dignità della persona umana e il rispetto
dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo e la cornice generale
entro cui trovano posto tutte le nostre scelte di programma.
La storia per altro insegna – e questa crisi lo conferma – che non esiste una
gerarchia dei diritti e che l’azione per il loro riconoscimento e la loro affermazione
vive di una tensione continua sul piano politico e sociale. In particolare,
noi guardiamo oggi nel mondo alla lotta di popoli interi per la difesa dei diritti
umani, a iniziare da quelli delle donne. E crediamo sia compito della politica,
dei parlamenti e dei governi affermare l’indivisibilità dei diritti: politici, civili e
sociali.
Anche su questo terreno l’Europa è per la politica dei singoli Stati un riferimento
essenziale. A partire dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
proclamata per la prima volta a Nizza nel 2000 e dal Piano europeo di
contrasto alle discriminazioni: di genere, orientamento sessuale, etnia, religione,
età, portatori di differenti abilità.
Nel nostro caso questo significa l’impegno a perseguire il contrasto verso
ogni violenza contro le donne e a una legge urgente contro l’omofobia. Sul
piano dei diritti di cittadinanza l’Italia attende da troppo tempo una legge
semplice ma irrinunciabile: un bambino, figlio d’immigrati, nato e cresciuto
in Italia, è un cittadino italiano. L’approvazione di questa norma sarà simbolicamente
il primo atto che ci proponiamo di compiere nella prossima legislatura.
Daremo sostanza normativa al principio riconosciuto dalla Corte costituzionale,
per il quale una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione
ottenendone il riconoscimento giuridico
Su temi che riguardano la vita e morte delle persone, la politica deve coltivare
il senso del proprio limite e il legislatore deve intervenire sempre sulla
base di un principio di cautela e di laicità del diritto. Per evitare i guasti di un
pericoloso “bipolarismo etico” che la destra ha perseguito in questi anni, è
necessario assumere come riferimento i principi scolpiti nella prima parte della
nostra Costituzione e, a partire da quelli, procedere alla ricerca di punti di
equilibrio condivisi, fatte salve la libertà di coscienza e l’inviolabilità della persona
nella sua dignità.

10 Responsabilità
L’Italia ha bisogno di un governo e di una maggioranza stabili e coesi. Di
conseguenza l’imperativo che democratici e progressisti hanno di fronte è
14
quello dell’affidabilità e della responsabilità. Per questa ragione, nel momento
stesso in cui chiamiamo a stringere un patto di governo movimenti, associazioni,
liste civiche, singole personalità e cittadini che condividono le linee di
questo progetto, vogliamo assumere insieme, dinanzi al Paese, alcuni impegni
espliciti e vincolanti.
Le forze della coalizione, in un quadro di lealtà e civiltà dei rapporti, si dovranno
impegnare a:
• sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del
premier scelto con le primarie;
• affidare a chi avrà l’onere e l’onore di guidare la maggioranza, la responsabilità
di una composizione del governo snella, sottratta a logiche di spartizione
e ispirata a criteri di competenza, rinnovamento e credibilità interna e
internazionale;
• vincolare la risoluzione di controversie relative a singoli atti o provvedimenti
rilevanti a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari
convocati in seduta congiunta;
• assicurare il pieno sostegno, fino alla loro eventuale rinegoziazione, degli
impegni internazionali già assunti dal nostro Paese o che dovranno esserlo in
un prossimo futuro;
• appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale
che nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta
unica e procedere verso un governo politico-economico federale dell’eurozona.
I democratici e i progressisti s’impegnano altresì a promuovere un “patto di
legislatura” con forze liberali, moderate e di Centro, d’ispirazione costituzionale
ed europeista, sulla base di una responsabilità comune di fronte al passaggio
storico, unico ed eccezionale, che l’Italia e l’Europa dovranno affrontare
nei prossimi anni.
Abbiamo alle spalle il decennio di una destra impregnata di promesse e parole
che hanno reso più confuse e opache la politica e l’azione del governo.
Mentre davanti a noi l’ansia del cambiamento si sente con più forza. Noi – i
democratici e i progressisti – questa volta non inviteremo a sognare. Insieme
con il Paese che resiste e vuole ripartire apriremo bene gli occhi e ascolteremo.
Assumeremo degli impegni. Discuteremo con la società consapevole i traguardi
di un’Italia da rifare. Siamo pronti e non siamo soli. Siamo convinti di avere
cose da dire, e soprattutto molte cose da fare. Per l’Italia, bene comune

Intervista P. Bersani

Intervista P. Bersani

Bersani a Monti: “Cambi passo oppure l’Italia non si salva”

Il messaggio del segretario PD: “Dico all’esecutivo che è ora di riscrivere l’agenda, di rompere l’avvitamento tra austerità e recessione”. E ancora: “Se passasse l’idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, ci porremmo ai margini delle democrazie”

di MASSIMO GIANNINI “La Repubblica”

“SENTO in giro molte preoccupazioni sul dopo Monti. Allora chiariamo subito un punto: qualunque ragionamento sul prossimo futuro deve partire dal presupposto che non vengano abolite le elezioni, magari su suggerimento di Moody’s. Se in Italia passasse l’idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, noi ci porremmo automaticamente al margine delle democrazie del mondo”. Finite le brevi ferie d’agosto, Pierluigi Bersani torna in campo e detta a Monti le condizioni dell’autunno. Il leader del PD considera quella del governo tecnico una “parentesi non ripetibile”. “Perché vede – spiega – il limite della soluzione tecnica non sta nel governo Monti, che pure ha fatto un gran lavoro, ma nella mancanza di univocità di una maggioranza che ha opinioni diverse, perché in natura esistono una destra e una sinistra alternative l’una all’altra. E se a Bruxelles o sui mercati si ha paura per la tenuta del rigore in Italia, io voglio credere che ci si riferisca a un rischio Berlusconi o a un pericolo populista, non al centrosinistra”.

Eppure, segretario, l’impressione è che cancellerie e Borse non si fidino neanche di voi…
“Noi abbiamo fatto la moneta unica, con Prodi, D’Alema e Amato abbiamo raggiunto accordi storici con la Ue e la Nato, io ho lavorato con Ciampi e Padoa- Schioppa. I mercati e le cancellerie non possono far finta di non conoscerci. Se ci sono manovre interessate per dire che nell’Italia del dopo Monti non c’è un presidio credibile, noi siamo qui, con la nostra storia, a dimostrare che non è vero”.

Quindi lei fin da ora dice no a un Monti bis e dice no a una Grande Coalizione?
“Io dico che in un Paese maturo si fronteggiano un centrodestra, un centrosinistra ed eventualmente una posizione centrale che da una legislatura all’altra può dare flessibilità al sistema. Chi vince, governa. Questo è il vero tema, non quanti tecnici ci sono nel governo. E questo significa che non si può andare al voto proponendo una Grande Coalizione. Non esiste proprio”.

Perciò, Bersani va al voto con il suo programma e le sue alleanze, e se vince va a Palazzo Chigi. Giusto?
“Così funziona, nelle democrazie normali. E poi, hai visto mai, può succedere che una figura come Monti non riesce a portare a casa una legge contro la corruzione, e invece Bersani ci riesce”.

Il Pd è sempre più insofferente col governo. Oggi c’è il primo Consiglio dei ministri dopo le ferie. Cosa chiede a Monti?
“A Monti chiedo un cambio di passo. Non sono d’accordo su come stanno andando le cose. È ora di riscrivere l’agenda. Per noi progressisti è il momento di rompere l’avvitamento tra austerità e recessione. Il rigore non va abbandonato. Ma è ora di aprire gli occhi. Lo dico anche al Consiglio dei ministri che si riunisce oggi: date finalmente uno sguardo alla realtà”.

Perché finora il premier e i ministri non l’hanno fatto?
“Non sto dicendo questo. Dico che ora ci sono due problemi da affrontare. Il primo è europeo: a settembre il messaggio dell’Ue sulla stabilizzazione degli spread non deve più essere un oggetto da Sibilla Cumana, ma deve diventare operativo. A proposito di battere i pugni sul tavolo, questa è l’occasione. Il secondo è italiano. Sento parlare di via d’uscita dalla crisi. Io credo nella possibilità di uno spiraglio, ma ancora non lo vedo. E ho l’impressione che il governo finora non abbia percepito lo scivolamento dell’economia reale. C’è un crollo della produzione industriale, un segno meno nei consumi, lavorano 22 milioni di italiani su 60. Io chiedo: come affrontiamo queste emergenze?”.

E cosa si aspetta che le risponda, Monti?
“Per me il rigore è la condizione necessaria, ma non è l’obiettivo. Il vero obiettivo, qui ed ora, è il sostegno all’economia reale. Leggo di piani energetici, di piani per gli aeroporti. Per carità, va tutto benissimo. Ma i problemi di famiglie e imprese, in questo momento, sono altri. Per esempio: il prezzo della benzina si può ridurre? I pagamenti della Pubblica Amministrazione sono stati sbloccati? E che facciamo di fronte alle crisi industriali, dalla Fiat a Finmeccanica all’Alcoa? Le eventuali operazioni di alienazione del patrimonio pubblico possono essere destinate a politiche industriali e allo stimolo all’economia reale? In agenda io vorrei queste priorità. Attenzione a messaggi troppo astratti, che non generano fiducia ma semmai scollamento”.

Da mesi si critica il governo perché non fa niente sulla crescita, ora lei lo critica perché prova a fare qualcosa?
“Io non lo critico, ma dico che non bisogna passare dal niente al troppo. Sento parlare di una defiscalizzazione del-l’Iva sulle infrastrutture, praticamente senza copertura. Bene, ma perché da mesi si dice no alla sterilizzazione dell’Iva sulle accise per la benzina? Ci sono cose che il governo può fare subito. Rafforzi gli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni immobiliari in funzione antisismica e ambientale. Adotti misure di sburocratizzazione, eliminando passaggi burocratici o esternalizzandoli. Finanzi l’innovazione coi crediti d’imposta sulla ricerca e la defiscalizzazione degli investimenti. Introduca una vera Dual Income Tax”.

Il nodo vero è la pressione fiscale. Lei pensa che Monti dovrebbe cominciare a rimodulare le aliquote Irpef?
“Senta, io non riesco a raccontare favole. È un obiettivo per il futuro, ma per ora non possiamo permettercelo. Dobbiamo scongiurare gli aumenti dell’Iva, questo sì. Ed è possibile farlo, aumentando il recupero dell’evasione fiscale, concludendo l’accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali, lavorando realisticamente sugli incentivi alle imprese, e poi definendo meglio con gli enti locali la griglia della spending review”.

Elsa Fornero ha detto che porterà il taglio del cuneo fiscale in Consiglio dei ministri. Lei è d’accordo?
“Certo, in prospettiva il cuneo fiscale va ridotto. Ma anche qui, non ci sono soluzioni miracolistiche. E poi serve uno schema pattizio: Prodi tagliò il cuneo fiscale di 5 punti, ma purtroppo questo non servì a rilanciare gli investimenti”.

E la patrimoniale? La deve fare Monti, o la farete voi quando tornerete al governo?
“Noi proponemmo un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari per alleggerire l’Imu. Non si fece allora, per me va fatta adesso. Quanto alla finanza, la ricchezza scappa e la povertà resta. Va rafforzata la tracciabilità dei capitali, anche su scala europea. Questo Monti può farlo, entro la fine della legislatura”.

Lei parla di fine della legislatura. Ma tornano in ballo le elezioni anticipate a novembre.
“Le elezioni anticipate sono un’elucubrazione dannosa. Io non le auspico e non le vedo all’orizzonte, anche se è nostro dovere tenerci pronti a qualunque evenienza. Poi, lo dico una volta per tutte, non c’è alcun nesso tra voto anticipato e legge elettorale…”.

Ma l’intesa col Pdl sulle modifiche al Porcellum c’è o no?
“Oggi un accordo non c’è ancora, ma da parte nostra c’è la disponibilità a chiudere in fretta. Naturalmente, non rinunciamo ai nostri due paletti. Primo: la sera in cui si chiudono le urne il mondo deve sapere chi governa, altrimenti ci travolge uno tsunami. Secondo: i cittadini devono scegliere chi mandare in Parlamento. In concreto, questo significa due cose. Ci vuole un premio di maggioranza ragionevole, e il 15% lo è, perché sarebbe curioso che il Pdl che nel 2005 ha introdotto una premialità sconosciuta in Occidente oggi dicesse no a una premialità decorosa. E poi ci vuole una quota significativa di collegi uninominali, per ricreare un legame tra elettori ed eletti”.

Mi dica la verità, c’è imbarazzo nel PD sul conflitto sollevato dal presidente Napolitano contro i pm di Palermo per le intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia?
“Nessun imbarazzo. Napolitano ha fatto quel che doveva. Dopodiché, in un sistema costituzionale e democratico lo schema non è chi è d’accordo e chi no con il Capo dello Stato, ma chi lo rispetta e chi no. E allora, se il presidente ha chiesto alla Consulta di chiarire un punto cruciale che riguarda le sue prerogative, può anche essere criticato ma deve essere rispettato. E questo non sta avvenendo sempre. C’è una campagna contro Napolitano: esiste un filone populista, in certe aree della politica e del giornalismo, che forse ha anche un disegno in testa. Ma non passerà”.

Ma lei e il PD siete d’accordo con Monti e la Severino, che annunciano una nuova legge sulle intercettazioni?
“Per me in una democrazia liberale il diritto alla riservatezza di chi è al di fuori da un’indagine penale non è un optional. Ma attenzione: questo diritto si garantisce con un filtro rigoroso affidato alla magistratura, senza limiti alle indagini e bavagli all’informazione. Dunque, se il governo vuole presentare un ddl con queste caratteristiche, noi siamo pronti a discuterne. Ma la condizione è che ci sia un pacchetto complessivo di riforma della giustizia, con al primo posto le nuove norme contro la corruzione. E dopo, semmai, anche le intercettazioni”.

Le primarie tornano a infuocare la vostra metà campo. Le farete, come e quando?
“Il percorso è chiaro. In autunno vareremo una carta di intenti, con regole d’ingaggio, criteri di partecipazione, impegni e responsabilità comuni. E tra novembre e dicembre faremo le primarie di coalizione, con la massima apertura alle forze politiche e alla società civile “.

Del rottamatore Matteo Renzi che mi dice?
“In questi mesi non ho mai alimentato polemiche, e continuerò a farlo. Siamo dentro la più grave crisi del dopoguerra. Ne usciamo solo se c’è condivisione tra noi”.

Sulle alleanze il quadro è problematico, tra Vendola e Casini. Riuscirete a vincere e a governare, mettendo insieme i centristi e i comunisti?
“Noi organizziamo un centrosinistra aperto a un incontro con forze politiche e sociali moderate. Entro ottobre saranno pronti 10-15 punti di programma, non 281 pagine. Sarà poi il candidato premier a fare il resto…”.

Lei, presumibilmente…
“Se mi voteranno, sarò io. Sulla base di quel programma, il centrosinistra proporrà un’alleanza di legislatura alle forze liberali e moderate del Paese. Dentro questo perimetro non ci sono solo Vendola e Casini, ma ad esempio anche i socialisti”.

Con Di Pietro è finita per sempre?

“Mi pare evidente che lui vuole star fuori. Il centrosinistra deve fare spesso i conti con le forze agite da questo istinto minoritario di auto-esclusione dalle responsabilità. Io, da riformista, lavoro perché questa maledizione finisca. Il PD è pronto per governare, e sono convinto che governerà”.

m.giannini@repubblica.it

Noi siamo diversi

Noi siamo diversi

Noi siamo diversi: dimostriamolo!

Questa data sarà ricordata come uno spartiacque nella storia d’Italia. Tutti gli italiani, sia residenti che non, vivono queste interminabili ore con il fiato sospeso. In questo fine settimana il nuovo Governo Monti si appresta a varare l’ennesima legge di stabilità che dovrebbe sistemare i conti evitando, si spera, all’Italia e all’Europa tutta un destino di crisi, recessione e rivolte sociali.

Se ci soffermiamo ad osservare gli avvenimenti odierni, circoscrivendo la nostra attenzione all’Italia, possiamo scoprire come si possano trovare molte similitudine con i fatti dei primi anni ‘90, con l’eccezione, per fortuna, delle stragi mafiose. Sembra che niente sia cambiato e come in un malvagio gioco dell’oca siamo ritornati al punto di partenza. Oggi come allora ci troviamo in una situazione economica critica, con il nostro debito agli stessi livelli di 20 anni fa. Oggi come allora agli italiani vengono chiesti sacrifici enormi per poter salvare il nostro Paese. Oggi come allora si prevede una riforma delle pensioni (si arriverà mai ad una riforma definitiva ? mah….). Oggi come allora la classe politica ha dovuto, alla fine, far ricorso a dei tecnici per governare il Paese. Ma soprattutto, oggi come allora la politica è coinvolta in episodi di corruzione e collusione mafiosa.

Proprio nei momenti in cui tutta la politica dovrebbe rappresentare un’ancora di salvezza per la nostra Nazione a cui tutti gli italiani avrebbero necessità di aggrapparsi e che dovrebbe accompagnarli per mano verso l’uscita dalla crisi, riscopriamo che essa è più debole del Paese stesso. In questi momenti ci si aspetterebbe dai partiti e dalla politica in generale senso di responsabilità, rigore, in sostanza il semplice buon esempio. Invece cosa siamo costretti ad osservare ? Scandali, scandali e ancora scandali che vanno dalle mazzette, di qualsiasi tipo e colore, alla collusione mafiosa affaristica e, con grande sofferenza, devo constatare che anche il nostro partito ne è lambito.

E’ ora che il nostro PD, il partito per il quale ci impegnano quotidianamente, batta un colpo serio. E’ ora che il partito in cui milito affronti con serietà e severità questi fatti, garantendo l’onore di tutti coloro che sono iscritti e che hanno votato per esso. Sinceramente tutti noi iscritti siamo stanchi di doverci rimettere la faccia e il nostro onore. Siamo stanchi di essere considerati dalla pubblica opinione uguali “a tutti gli altri” che fanno politica solo ed esclusivamente per trarne vantaggi personali. Diventa sempre più difficile spiegare e far capire ai nostri concittadini che il 99% degli iscritti del nostro partito interpretano questa militanza come impegno civico, come servizio a disposizione della società, e che lo fanno con spirito di sacrificio dedicandosi anima e cuore.

Bisogna iniziare a dire ad alta voce che tutti noi ci sentiamo moralmente danneggiati quando vengono coinvolti rappresentati del PD.

E’ arrivata l’ora che venga tutelato il buon nome del partito e di coloro che vi militano. Ecco perché propongo al PD di inserire nel suo stato statuto un articolo in cui si afferma che: “il PD si impegna a  costituirsi parte civile nel caso in cui un tesserato, nominato o eletto nelle liste del partito sia rinviato a giudizio per reati di concussione, corruzione, finanziamento illecito o di mafia”.

E’ necessario che tutti coloro che si candidano ad assumere ruoli amministrativi, dirigenziali o politici di qualsiasi tipo o che semplicemente svolgono attività in nome del PD, siano consapevoli, sino in fondo,  che, nell’esercizio delle loro funzioni, essi rappresentano tutto il partito, dal segretario fino all’ultimo iscritto, assumendosi in pieno la responsabilità delle azioni compiute. Non è più sufficiente chiederne solo ed esclusivamente la sospensione dagli incarichi,  è necessario stabilire il concetto che, se riconosciuti colpevoli, oltre ad essere non più candidabili nelle liste del PD, dovranno anche risarcire i danni d’immagine procurati al partito stesso, ai suoi iscritti ed elettori.

Dobbiamo contrastare in tutti i modi possibili chi utilizza i voti presi all’interno del partito o dagli elettori, candidandosi nelle liste del PD, per fare la propria fortuna a scapito della collettività.

Spero che il partito prenda seriamente questa proposta, che non vuole essere una semplice provocazione, bensì un’ulteriore passo per potere affermare con forza che noi non siamo come gli altri, che noi siamo diversi, che per noi il rigore morale è la legalità sono valori imprescindibili. Solo cosi potremo riproporci con serietà e fierezza di fronte ai nostri concittadini.

Giovanni Tinella – Presidente Circolo PD di Ginevra

Ginevra 3 Dicembre 2011